“La grande macchina pescatoria composta di tronchi intrecciati, di assi e di gomene biancheggiava simile allo scheletro colossale di un anfibio antidiluviano…. pareva vivere di una vita propria avere un’aria e un’effigie di corpo animato. Il legno esposto per anni ed anni al sole, alla pioggia, alla raffica mostrava la sua fibra .. si sfaldava si consumava, si faceva candido come una tibia o lucido come l’argento o grigiastro come la selce… acquistava un’impronta distinta come quella d’una persona su cui la vecchiaia e la sofferenza avessero compiuto la loro opera crudele” (Trionfo della morte, Gabriele D’Annunzio)
Il Vate le celebrava, ma la loro storia nasce ben prima dell’ardimentoso poeta pescarese. E’ una storia che si addentra nelle origini della presenza umana su queste rive e che, nel tempo, ha saputo costruire, sulla base dell’esperienza e dell’intelligenza, uno strumento molto sofisticato eppur, al tempo stesso, di atavica ed insuperata bellezza.
Quando la costa abruzzese corre verso sud, nel tratto della provincia di Chieti che va da Francavilla a San Salvo, diventa via via più sinuosa e silente, tra spiagge e calette nascoste, accessibili solo a piedi. Quando le ginestre imperversano selvagge e il paesaggio si macchia di rigogliosa vegetazione profumata, gli oliveti e la vigna sono bramosi di brezza salmastra e la lecceta di Torino di Sangro regna autentica e mediterranea, si intravedono sopra gruppi di scogli, strane creature protese verso il mare. Sembrano ragni sparsi sul litorale con lunghe antenne rivolte ad oriente, un piccolo corpicino e snelle e traballanti zampe che affondano nell’acqua. Sono i trabocchi, ataviche palafitte da pesca diffuse sul versante adriatico meridionale, testimoni di tempi antichi in cui l’uomo pare avesse paura di avventurarsi in mare aperto. Come vedette sul mare, queste piattaforme assicuravano stabilità, qui si poteva pescare senza allontanarsi nel blu, in un luogo a metà tra la terra e l’acqua, una sorta di braccio che prolunga la costa. Una volta vi abitavano le famiglie più povere dei pescatori delle zona. Il termine trabocco è stato di fatto italianizzato e proviene dal dialetto travocche, forse derivante dal latino trabs (legno, albero, casa); per qualcuno la parola deriva dal “trabocchetto” che si tende al pesce, per altri dalla tecnica di conficcare i pali tra gli scogli, “tra i buchi”, oppure dal cosiddetto “trabiccolo” usato nei frantoi per spremere le olive, molto simile all’argano che è situato sul trabocco.
Nessuno può stabilire con esattezza l’epoca in cui sono stati “poggiati” sul mare. La loro origine si perde nella notte dei tempi. Si può solo supporre che la loro invenzione sia stata originata dalla paura che l’uomo provava, una volta, nell’avventurarsi, per la pesca, in mare aperto: era più comodo e più sicuro “pescare da fermo”, da una piattaforma stabile, collegata alla terra ferma da una passerella in legno.
Ma da quando i Trabocchi sono apparsi sulle coste abruzzesi?
Secondo alcuni storici il trabocco sarebbe un’invenzione importata dai Fenici. Ma i primi e più antichi documenti che ci parlano dei “trabocchi” della nostra zona sono stati reperiti da padre Stefano Tiraboschi dell’Ordine Celestiniano che nel manoscritto “ Vita Sanctissimi Petri Celestini” (Pietro da Morrone), conservato presso la Biblioteca Marciana di Venezia, parlando della permanenza di Pietro da Morrone nel Monastero di San Giovanni in Venere (1240-1243), racconta che Pietro usciva spesso dall’Abbazia di Fossacesia e, dal colle “Belvedere”, ammirava il mare sottostante “punteggiato di trabocchi”. Si deduce pertanto che nel 1240, l’anno di inizio del corso di studi frequentato da Pietro da Morrone, i trabocchi già esistevano. Stefano Tiraboschi sempre nel suo manoscritto riferisce anche una testimonianza di Pietro di Angelerio, nato nel 1215 a S. Angelo nel Molise: “La grande distesa del mare mi sembrò meravigliosa, come quando, da bambino, accompagnavo i parenti ai pascoli bassi, verso la marina di Vasto. Ma ora, più che il mare calmo che luccicava sotto il sole della tarda mattina, punteggiato dai trabocchi posti come vedette verso il confine del cielo, mi colpiva la grande Badia. Era la cosa più bella che avessi mai visto”. Sulle origini di queste splendide figure lignee in bilico sulle acque marine, esistono ovviamente diverse versioni. Per uno dei più grandi appassionati di strutture da pesca e della loro storia, Pietro Cupido, autore del libro “Trabocchi, traboccanti e briganti” (Menabò 2003), le “macchine pescatorie” sono apparse sulle coste abruzzesi intorno al 1627, quando gruppi di ebrei ripararono in Abruzzo dalla Francia e inventarono questi marchingegni in quanto esperti artigiani.
Gli elementi costitutivi
Sempre citando il Vate, Turchino, il pescatore presente ne “il Trionfo della morte”, lo si poteva scorgere su una scogliera nerastra, dove era situata: “La grande macchina pescatoria composta di tronchi scortecciati, di assi e di gomene, che biancheggiava singolarmente, simile allo scheletro colossale di un anfibio antidiluviano”. Il traboccante è un vero e proprio artigiano che si avvale di una sapienza costruttiva di grande ingegno tramandata nel tempo, è un’arte quella di assemblare materiale di recupero, spesso portato dal mare. Apparentemente precario e fragile, il trabocco è fissato in equilibrio con strallo di cavi e con pali alla roccia. Strutture simili sono presenti anche sul litorale del Gargano, a Latina, nel basso Tirreno e a Ravenna; tuttavia, il trabocco abruzzese si distingue dagli altri perchè situato in parte o totalmente in acqua, trasversalmente rispetto alla costa cui è collegato con passerella. Quest’ultima, la cui dimensione può variare, è un ponte con la terraferma. La piattaforma è costituita da tavole di legno che coprono in media una superficie di quaranta metri quadri ed è retta da quattro-sei pilastri verticali. Anche detta palchetto, la piattaforma ospita l’argano che consta di due pali incrociati che comandano la rete durante la pesca. Infine sulla struttura troviamo la cabina, un piccolo vano con tetto, una volta utilizzata anche per l’allevamento e oggi cucina per la ristorazione. Le cosiddette antenne sono due pali leggeri in abete che consentono, grazie all’ausilio di carrucole, il movimento delle corde poste a sostegno degli angoli superiori della grande rete. Le antennine, invece, sostengono gli estremi inferiori della rete. I materiali impiegati per la costruzione dei trabocchi di una volta, provenivano dalle immediate vicinanze. Per la paleria era frequente l’uso del castagno, dell’olmo e della robinia, oltre al pino e all’abete rosso. Per le corde si utilizzava la canapa. In seguito, furono impiegati anche pali delle linee telegrafiche e telefoniche, stabilizzati da fili di ferro. A volte si costruiva anche con i resti provenienti da altri trabocchi.
I trabocchi nel dopoguerra hanno subìto un progressivo abbandono dovuto sia al disuso delle strutture, sia alla perdita delle tecniche di manutenzione. Da alcuni anni i Trabocchi sono tornati ad essere oggetto di molta attenzione. La maggior parte di essi è stata ristrutturata ed oggi vive una nuova vita, non più al servizio degli umili pescatori, ma di turisti curiosi ed esigenti.
I Trabocchi sono inoltre stati protetti da una normativa speciale, in Abruzzo, che ne promuove il recupero e la valorizzazione estetica.
Storie di trabocchi e traboccanti
Verì è un cognome assai diffuso tra i traboccanti. Uno di loro, Bruno, è proprietario del Trabocco Palombo a Fossacesia, diventato oggi un luogo dove riscoprire la pesca della “cala lenta” e degustare i piatti tradizionali. «Il trabocco è un’attrazione per la sua unicità. Veniamo da una famiglia di traboccanti e commercianti di pesce – spiega Verì -. La nostra attività ora si basa sulla piccola pesca e sulla gastronomia». Se il vento è buono, Bruno cala la grande rete a ombrello davanti ai suoi ospiti e quando la tira su con le corde fissate all’argano, è piena di pesci, spigolette, cefali e pesce azzurro.
A questo punto, il pescato fresco viene portato nella piccola cucina ubicata sul trabocco, per essere servito con prodotti dell’agroalimentare del luogo, altrettanto freschi e genuini.
«Io il trabocco ce l’ho nel sangue – racconta ancora Bruno Verì -. Da piccolo seguivo mio nonno quando andava a pescare, a quei tempi la struttura era molto più piccola e non potevamo salire in molti. Oggi la pesca non è più quella di una volta, il pesce scarseggia, si sa».
Cosa importante per un trabocco è la sua manutenzione, che secondo Verì deve essere fatta ogni mese. «A differenza dei trabocchi del Gargano, i nostri sono in mezzo al mare e quindi continuamente esposti al vento forte e all’acqua. Bisogna controllare il poliolato – le tavole – che va sostituito ogni due, tre anni. Poi ci sono le barre che arrugginiscono e i pali che si corrodono e a volte capita che si rovinino internamente. Oggi un trabocco può valere da duecento a trecento mila euro».
Parte integrante dell’identità costiera abruzzese, i trabocchi sono un tesoro d’Abruzzo da custodire, innanzitutto perchè ci raccontano di un’antica civiltà legata alla pesca e alla tradizione. Al di là della buona ristorazione, lu travocche deve rimanere un luogo di leggende e magia, suggerite dalle sue fattezze che rimandano ad una cosa viva. Salire su queste palafitte da pesca è già un’emozione: il legno che scricchiola ad ogni passo, la brezza marina, il profumo di una dimensione antica. Andate a parlare con i pochi traboccanti superstiti – quelli veri – ascoltatene le storie, e lì, sospesi tra terra e acqua, coglierete il messaggio che vi porterà il mare, che sciaborda tra i pali di quelle palafitte ancestrali.
Tratto da: Tesori d’Abruzzo di Jenny Pacini.